In una ipotetica classifica
dei dieci migliori album di post-black metal (che forse un giorno
stileremo) non metteremmo di certo questo “As the Stars” dei Woods of
Desolation. Certo che siamo proprio stronzi: dopo aver “fatto fuori” Aluk Todolo, Locrian, Liturgy, perché cestinare anche costoro?
Perché ci fanno venire una
rabbia furibonda, i Woods of Desolation, considerata la grande occasione
mancata che ha rappresentato “As the Stars”, ad oggi loro ultimo album dato
alle stampe.
Partiamo da una domanda
scolastica: qual è il segreto per confezionare un buon album black metal?
Saper suonare? Seeeee!!! Una produzione nitida e potente? Ma per piacere!!!
Essere innovativi? Non necessariamente. Ve lo dico io cosa serve per fare del
buon black metal: essere chitarristi ispirati e saper azzeccare il riff
giusto. Vi giuro, basta quello, per il resto ci può andare bene tutto: un cane
a cantare, una drum-machine caricata a mille, un amplificatore in una
cantina o in una foresta è sufficiente; il bassista, può rimanersene anche a
casa. Per questo in tanti casi abbiamo delle one-man band e i grandi
luminari del black metal sono alla fine personaggi che non sanno suonare una
mazza, ma che magari compensano questa mancanza con una grande ispirazione.
Ebbene i Woods of Desolation ce
l’hanno un chitarrista ispirato, uno che azzecca dieci riff su dieci, ma
poi non hanno altro, questo è il loro problema! Il misterioso D. sarebbe
il chitarrista, nonché leader e deus ex machina della band australiana. Band
australiana?? Fermi tutti: lo so che al sol pensiero di accostare le parole
“black” e “metal” ad “Australia” sarete immediatamente colpiti da dissenteria
acuta, ma qui della terra dei canguri fortunatamente non perviene il minimo
sentore, suonando il tutto molto very very “norwegian”! Sì, il modello
di riferimento è quello del black ruvido della Norvegia più forestale (come del
resto suggerito dalla pregevole copertina vangoghiana) ed in
effetti gli Ulver di “Nattens Madrigal” potrebbero essere un
utile riferimento. Però attenzione, perché non siamo più nel 1997, bensì nel 2014,
nel pieno dell’ondata blackgaze, nuovo filone aperto qualche anno prima
dai pionieri Alcest, che ebbero la geniale intuizione di mescolare Ulver,
Burzum, Katatonia alle sonorità shoegaze.
Non è più quindi una novità
ritrovarsi in un disco black metal quella caotica dolcezza che era appannaggio
di band quali My Bloody Valentine e Slowdive, non strabuzziamo
quindi gli occhi, ma, diciamolo con franchezza, il blackgaze, se suonato come
si deve, è una formula che non può fallire: una, due, tre linee di chitarra,
arpeggi, suoni pastosi, onde sonore che si propagano dalla chitarra e si
modellano attorno ad un sound avvolgente e scorrevole che ricongiunge la
tragica poetica del black metal all’interiorità affranta dei menestrelli dello
shoegaze. Con quei panorami post-rock che accomunano i due ambiti.
Ed “As the Stars” non fa
eccezione: trentaquattro minuti (forse un po’ pochini, in effetti) che
non stancano un momento, un unico flusso sonoro di melodie ed intrecci
chitarristici da favola. Chi ha il groppo in gola e sente che sta per “rompersi”
in un pianto liberatorio, si avvicini od allontani da quest’opera a seconda di
quale sia il suo intento (esplodere o comprimersi), perché rimanere indifferenti
sarà impossibile!
Allora dove sta l’inghippo?
Com’è che gli Woods of Desolation non si suonano con il flauto alle scuole
medie? Perché non sono cantati in coro negli stadi? Perché il loro cd non è
contenuto nelle famigerate buste arancioni che l’INPS manda ai cittadini per
verificare a quanto ammontano i contributi ed indicare quando uno potrà andare
in pensione? Dieci riff su dieci: ma non si era detto che, se la
chitarra è ispirata, il black metal è pronto e servito? E invece no, cari miei,
la chitarra non basta e il buon D. riesce a cadere laddove il terreno era meno
scivoloso, poveraccio lui. Magari fosse stato da solo: gli si sarebbe potuto
perdonare di non essere né un buon batterista né un buon cantante (il basso, si
sa, nel black metal è come un wurstel in una galleria!). Ed invece D.
decide di portare avanti la sua missione artistica in compagnia, in cattiva
compagnia per l’esattezza, contornandosi di gente che era meglio se rimaneva ad
apporre timbri nell’ufficio del catasto o nell’agenzia delle entrate, o in
qualsiasi altra occupazione in cui un geometra ed un ragioniere possano fare il
loro buon dovere: fra misure e calcoli dovevano stare Luke Mills, Vlad
e Old (tali sono i nomi e i soprannomi di questi musicisti), altro che
in uno studio di registrazione!
Fra i tre, Mills, il
bassista, è quello che fa meno danni perché proprio non si sente: o si è
dimenticato di attaccare lo spinotto del suo strumento all’amplificatore,
oppure ha timbrato il cartellino ed è andato a farsi i capelli. Vlad, alla
batteria, ha invece scritto in fronte “Pubblica Amministrazione”: fa il suo,
questo c’è da dirlo, ma è anche vero che nel post-black metal è comprovata
l’importanza che ha il buon batterista nel dare l’indispensabile valore
aggiunto, governando le forze maestose delle chitarre, incalzandole e conferendo
ai brani, spesso lunghi ed impetuosi, accenti sempre nuovi. Non aiuta
sicuramente la breve durata dei brani, né il fatto che il mixaggio esalta le
chitarre rispetto a tutto il resto, tant’è che la batteria si fa avanti con
fatica fra i muri di distorsioni che D. mette in campo. La nota dolente è però Old,
che dietro al microfono si rende responsabile di una prova minuscola, disperso,
disorientato, letteralmente sepolto dalla forza dirompente del wall of sound
allestito dalle sole chitarre. Ma band come i Defheaven (si vada alla
voce “Sunbather”) hanno ampiamente dimostrato come si possa essere convincenti
anche in un contesto di suoni confusi e rarefatti e di voce in lontananza...
C'è però da dire un'altra
cosa: ok la voce, ok la batteria in sottofondo, ma non c'è solo questo. I brani
sono mediamente brevi e non sembrano portare a nulla, forse peccando di rigore
e struttura (una struttura che in effetti non emerge, laddove non c'è una
solida base ritmica a dettare la direzione o un vocalist carismatico a
sottolineare o rendere intellegibili i passaggi chiave). Ma è indubbiamente una
pecca di D. quella di non dare una fisionomia peculiare ai singoli brani, che
non sanno alzare la testa oltre quel hic et nunc chitarristico di cui si
compongono. Più in generale, laddove non si ha il formato canzone, diviene
decisivo un impianto formale che getti un recinto alla pura ispirazione,
foss’anche una ripetizione di un tema al momento giusto. Un insieme di riff
riusciti, con una batteria che scolasticamente valorizza stacchi e ripartenze: questa è
l’essenza di “As the Stars”, a cui manca evidentemente quel quid che fa la
differenza fra un buon album ed uno epocale.
Ci vuole di più: ci vuole ispirazione,
ma anche testa; è indispensabile l’individualità quanto la squadra.
Ai Woods of Desolation, pur avendo doti rare come una profonda ispirazione ed
una grande individualità (quella di D.), mancano testa e squadra: due elementi
che, pur in un genere istintivo ed individualista qual è il black metal,
divengono oggi più importanti che mai. Soprattutto laddove il black metal si fonde
con generi collegiali come il post-rock e lo shoegaze.
Rimandati
a settembre.