Se dovessimo compilare la
classifica dei migliori album delle cult band degli "anni zero" del Terzo
Millennio, così come abbiamo già fatto per gli anni '80 e '90, inseriremmo
senza dubbio i danesi Beyond Twilight.
Nati dalle ceneri dei Twilight, i BT sono stati la creatura esclusiva
dell’estroverso Finn Zierler.
Classe ’72, il Nostro è un tastierista sì virtuoso, ma nè sborone nè
keyboards-centrico. Elementi questi che renderanno la sua band diversa da altre
del panorama prog dell’epoca (lo so, data la provenienza avrete pensato subito
ai Royal Hunt…)
No, i BT non sono una brutta
copia del buon Andrè Andersen. Suonano diversi. Prog si, senza dubbio. Ma molto
più pesanti, più heavy. E decisamente più dark. Oltre al fatto non trascurabile
che non si ripeteranno mai, sfornando sempre nuove soluzioni ad ogni
pubblicazione. Pubblicazioni che per la verità
rimarranno solo tre (più la prima discreta demo del ’99, “Lurking fantasia”).
L’esperienza negli anni novanta
con i Twilight si rivelerà comunque utile per Zierler il quale, dopo il loro
split, fonderà appunto i BT (evviva la fantasia…), portandosi dietro una delle
carte vincenti del passato (e come vedremo anche del futuro) progetto, cioè
l’ottimo batterista svedese Tomas Freden.
Segnatevi questo nome perché siamo davanti davvero a un talento puro del
drum-kit. Eppure di lui non vi è traccia (ad eccezione di una sporadica
collaborazione nel 2003 con il leader dei Candlemass Leif Edling) né prima né dopo i lavori con Zierler. Si sarà rotto i
coglioni di suonare evidentemente…
Ad ogni modo, MM vuole rendere
omaggio con la presente retrospettiva a questa band ormai di culto, sparita quasi
dieci anni fa. E allora, partiamo!
“The Devil’s Hall
of Fame” (2001)
Vero esordio sulla lunga distanza
per la band e primo colpo sensazionale: a scrivere a quattro mani con Zierler
tutti i testi per i brani del disco, ma soprattutto alla voce, troviamo
nientepopodimenoche Sua Maestà Prezzemolino, alias Jorn Lande. Difficile effettuare una valutazione del disco a
prescindere dalla voce del corpulento singer norvegese. La sua ugola e il suo
carisma sono talmente ingombranti che rischiano di coprire il resto. Tutti i
45’ del platter infatti si reggono, oltre che sulle linee dettate dalla
tastiera di Zierler, sulla super-voce del frontman il quale non risparmia le
corde vocali neppure per un secondo. Tirata, a tratti sofferta, sempre carica
di pathos, la sua interpretazione dona al mood del disco una credibilità di
grande impatto.
Sul fronte del songwriting invece
il biondo tastierista danese punta sempre su tempi medio-lenti, oscuri, a volte
monolitici. Forse troppo monolitici. Lande suda, si sbatte e sbuffa tutto il
tempo riuscendo a tenere alta l’attenzione dell’ascoltatore. Attenzione che
rischierebbe di cedere e sfociare in noia, che a tratti fa capolino. L’accoppiata
iniziale “Hellfire” – “Godless and wicked”, con le loro reminiscenze
cyber-industrial, e la conclusiva, pachidermica “Perfect Dark” rendono bene quanto
detto. Nella parte centrale invece il combo dà il meglio di sé con due pezzi
che da soli valgono l’intero ascolto: “Shadowland” e “Crying” due top-songs,
con un chorus da brividi la prima che ti si stampa subito in testa; mentre la
seconda, nei suoi sette minuti, è il brano forse più sperimentale nel quale
chitarra, tastiera e i vocalizzi caldi e profondi di Lande (unici momenti in
cui Jorn usa un tono più pacato e dolce) si fondono alla perfezione con un
intelligente approccio prog.
C’è poi la title track, il brano
più lungo del lotto: in oltre 8 minuti Zierler guida la band in un viaggio infernale nei profondi recessi
degli inferi a rispecchiare il titolo del disco. E’ un brano dalla
profondissima vena doom, molto ispirato. Quasi una colonna sonora per un film
dell’orrore. E il vocalizzo di Lande, lungo dieci secondi, al minuto 5 e 25” fa
accapponare la pelle…
Ma al di là di questa perla, in
generale l’idea che ci si fa è che quando Zierler decide di rilassarsi e aprire
ad ariose soluzioni melodiche forse è più ficcante di quando vuole fare il
metal progster duro e cazzuto. Ad ogni modo non si può negare
che la stoffa c’è, eccome. La tecnica pure. Bisogna solo affinare e focalizzare
la proposta...
Voto: 7
“Section X” (2005)
Passano quattro anni e i
cambiamenti apportati alla band dal mastermind Zierler non sono da poco: come
prima cosa fuori Lande e dentro un altro cantante, tale Kelly Carpenter, singer statunitense davvero dotato, capace di
passare da acuti lancinanti a parti più raschiate e gutturali, ad altre
potentemente cavernose vicine allo stesso Lande. Finn assolda anche un secondo
chitarrista, il connazionale Jacob
Hansen. Il sound risulta immediatamente più complesso, articolato, pieno
zeppo di tempi dispari. Sinfonismi mai stucchevoli, partiture classiche,
reminiscenze operistiche; e poi heavy, doom, riffoni al limite del death…c’è di
tutto in “Section X” (compresa una cover splendida, inquietante e suggestiva).
Il mood oscuro del debut rimane
intatto e l’opener “The path of darkness” è il miglior biglietto da visita
possibile dopo un attesa lunga quattro anni. E’ probabilmente la top song del
disco, dove nel finale troviamo addirittura piacevoli cori a-la-Shadow Gallery.
L’album va ascoltato più volte
per essere metabolizzato e colto nelle sue innumerevoli sfumature. Ma il puzzle
generale tiene alla grande; Zierler dimostra in fase di scrittura di aver
compiuto quel salto di maturità che auspicavamo. Non mancano, riviste e
metabolizzate, le lezioni d’oltreoceano di Dream Theater e, soprattutto,
Symphony X ma sono distanti deja-vu che non disturbano l’ascolto. Finn continua
a privilegiare tempi medi e lenti, ma questa volta non disdegna accelerazioni,
guidate dalla doppia cassa del sempre ottimo Freden; ma è soprattutto la scelta
di Carpenter che non solo si rivela vincente, ma addirittura ha una resa
superiore a quella data da Lande nel debut. Se è vero che un paio di brani
(“Shadow self”, “The dark side”) sono “solamente” buoni è altrettanto vero che
gli ultimi sedici minuti dell’accoppiata “Ecstasy arise”- “Section X” sono di
livello assoluto. In particolare la title track presenta uno dei chorus più
catartici mai ascoltati.
Decisamente il loro capolavoro.
Voto: 8
“For the love of
Art and the Making” (2006)
Altro giro altro regalo! Cioè...altro cantante! Fuori il fenomenale Carpenter (talmente bravo che Zierler se lo
porterà dietro anche con la sua futura omonima band) e dentro lo svedese Bjorn Jansson. Mossa azzardata (non so
se voluta o necessaria). Ma al di là di questo cambio, sicuramente non
marginale, quello che ci si aspettava era il raggiungimento della famosa
“quadra”: dopo lo splendido “Section X” era lecito attendersi una maggiore
messa a fuoco, una definizione ancora più matura della proposta. Il definitivo
salto verso il disco della consacrazione definitiva.
Quindi, il punto era: cosa
vorranno fare da grandi i Beyond Twilight?
Ecco, non si capisce.
Un epico
coro da chiesa su base sinfonica ci accoglie in questa terza release che si
compone di…43-dico-43 movimenti per 37’
(trentasette!) minuti di durata…roba che manco gli Anal Cunt. Ovviamente si
tratta di una suddivisione fittizia nel senso che siamo di fronte ad un’unica
composizione, con temi che ritornano e un’unica storia narrata come la migliore
tradizione prog ci ha fatto conoscere. Ma qua si va ben oltre gli
esperimenti (ad esempio dei Fates Warning di "A pleasant shade of gray"). Decisamente oltre. Perché il platter
è fottutamente spiazzante, del tutto incommentabile. Zierler non rinuncia alla
sua solita pesantezza e alle chitarre possenti, supportate dall’encomiabile
lavoro di Freden. Ma stavolta la pomposità e la pretenziosità del tutto
lasciano davvero interdetti. Le idee ci sono, la qualità esecutiva pure; Jansson
cerca di non far rimpiangere Lande e Carpenter e la sua ugola, tecnicamente,
c’è tutta. Ma l’interpretazione è spesso sopra le righe. E considerando che
musicalmente ci troviamo già davanti a qualcosa di decisamente sopra le righe,
il risultato è che è tutto troppo…troppo! E il troppo, come si suol dire,
stroppia. Non ti riesci ad abituare un attimo al tema di un pezzo che, nel giro
di venti/trenta secondi, questo stacca e comincia qualcos’altro; sei nel bel
mezzo di un potente pezzo al limite del thrash e il tutto si interrompe per
leggiadre note di solo pianoforte…e via così fino al finale (peraltro bellissimo, va detto).
Sinfonico, pomposo, ironico,
giocoso, cattivo, sperimentale, ermetico. Si potrebbero spendere mille
aggettivi e non cogliere nulla di questi assurdi, bislacchi, teatrali 37 minuti
di musica. Minuti che sono, a detta degli autori, “scomponibili” nei suoi 43 movimenti e
ascoltabili addirittura in ordine diverso dalla track list ufficiale.
Uno dei dischi più ambiziosi e
originali del terzo millennio metallico.
Voto: senza voto
In conclusione, per rispondere alla domanda
iniziale: i BT da grandi hanno voluto essere liberi; liberi da ogni regola e da ogni canone
musicale. E la troppa libertà, si sa, a volte può portare alla "morte". Forse
dopo quest’album la band non aveva scelta; come evolversi ancora dopo un disco del
genere? E così, dopo “For the love…”, lo split, la fine.
Zierler tenterà la
sorte sei anni dopo (!!), con lo Zierler
Project: poco egocentrico il ragazzo…talmente poco che toglierà dal
monicker pure il termine “project” per lasciare solo Zierler con i quali pubblicherà il misconosciuto “ESC” (2015).
A noi rimangono due cose:
l’amarezza per non aver visto proseguire uno degli act più originali e preziosi
degli anni duemila; e la soddisfazione per goderci il loro lascito: tre dischi
difficili da dimenticare.
A cura di Morningrise