In un genere come il post-rock in cui è così difficile dire qualcosa di nuovo dopo
praticamente trent’anni dalla sua nascita, Metal Mirror si sente oggi di consigliare a tutto il popolo metallico l’ascolto di “Dust And
Disquiet” (2015) dei Caspian, la band del Massachusetts che già avevamo
entusiasticamente citato, seppur di sfuggita, qualche tempo fa sul nostro Blog.
Se “Waking Season” aveva
clamorosamente raggiunto le corde del nostro freddo cuore metallico, DAD lo
folgora letteralmente. Perché i Caspian, giunti al quarto album in studio, non
hanno la minima intenzione di ripetersi e si mettono in discussione con un
disco diverso, segno di un’evoluzione importante e coraggiosa.
Coraggiosa perché compiuta in
senso “contrario” rispetto a quello che ci si poteva “naturalmente” aspettare.
Mi spiego: chi, nel grande calderone post-rock, ha cercato di evolversi e di
non ripetersi è approdato per lo più ai lidi del minimalismo e del cantautorato rock.
I Caspian decidono di andare in
direzione opposta: pur non rinnegando gli elementi cardine del genere, e
pagando il giusto e personale tributo ai maestri del passato, i Nostri
innervano negli stilemi post-rock robuste dosi di sano metal, di distorsioni
potenti, di percussioni martellanti, consentendo grandi spazi di manovra a
basso e batteria, messi in risalto da una produzione impeccabile. Non che i
Caspian siano totalmente nuovi a questo tipo di soluzioni (pensiamo alla
splendida “Procellous” o alla coda di “Hickory ‘54” da “Waking season”) ma il
discorso su questo DAD viene portato su un livello decisamente diverso.
Piccola premessa - Metal Mirror
lo aveva detto in tempi non sospetti, attraverso la penna del nostro
Mementomori, e precisamente in occasione del post sui Bachi da Pietra (non a
caso titolato “L’evoluzione al contrario”) dove il collega chiosava il pezzo
con queste illuminanti parole: No, l’heavy metal non è più una vergogna: sono
finiti i salottini bene dove si ascoltava solo jazz e/o il cantautorato
militante di una Joan Baez. Da tutti i fronti, negli ultimi anni, la musica
pensante si sta facendo sempre più pesante. […]. Metal is cool: ma non come lo
era negli anni novanta con il Black Album e i video dei Guns n’ Roses. No, oggi
il Metal, spogliato dei suoi clichè più superficiali ed irritanti (moto, birra
e pupe), e compreso nella sua metodologia, nella sua autenticità artistica,
rivalutato in questa sorta di evoluzione al contrario che porta verso la
brutalità e non viceversa, il metal, si diceva, sta diventando oggetto di
interesse anche per l’ascoltatore più raffinato, che finalmente riesce a vedere
il metal non più come rumore, musica per bifolchi, ma anche e soprattutto come
veicolo espressivo in grado di trasmettere meglio di atri certe tipologie di
messaggi.
Teniamo a mente queste parole e
passiamo ai Caspian del 2015, che, attenzione, non
rinunciano a brani leggiadri e ai tipici “crescendo” del post-rock: l’uno-due
iniziale, “Separation No.2” e “Rioseco”, in tal senso è sensazionale grazie al
certosino lavoro delle tre chitarre che flirtano dolcemente con sezioni di
archi e strumenti a fiato, toccando vette di emozionalità elevatissime, che non
scadono mai nella trappola del manierismo.
Ma se già nella coda della
seconda ci troviamo di fronte a una sezione di stampo metal, dove i volumi
aumentano di intensità e la distorsione delle chitarre si fa decisamente violenta,
sarà con la successiva accoppiata “Arcs of command” e “Echo and Abyss” (ma che
bei titoli!!) che i Caspian cominceranno a sbalordirci, distruggendo
piacevolmente le nostre aspettative, menando di brutto, spingendo all’estremo
il brivido elettrico, usando persino, loro band fondamentalmente strumentale,
disturbanti harsh vocals e copulando allegramente col post-metal di stampo
isis-iano e di altre band di quell’ampio “alveo musicale” (vengono in mente, ad
esempio, i Pelican).
A spezzare la tensione, enorme,
accumulata in questi primi 25’ del platter, i Caspian intelligentemente ci
fanno respirare con una song, “Run dry”, asciutta, pacata, cantautoriale; con
l’obiettivo, riuscito, di spalmare balsamo sulle ferite inferte dalle canzoni precedenti.
Il prosieguo del disco sarà un
continuo alternarsi di queste due anime, l’una più “classicamente” post-rock
(“Sad heart of mine”, l’unico brano forse meno riuscito dell’intero); e l’altra
più metallicamente contaminata (“Darkfield” è una bomba inattesa in tal senso).
La title track finale, nei suoi
11’ e rotti di durata, è uno splendido compendio e sintesi di questo
caleidoscopio di influenze e "anime". Dalle quali in ogni caso emana in ogni stante
una grande emozionalità, mai stucchevole e sempre ispirata.
Ma la cosa goduriosa per noi
ascoltatori è che DAD non è un approdo, ma è decisamente un punto di partenza.
Talmente tanti sono gli spunti che offre, gli elementi toccati in questi 57’
(dal prog allo shoegaze; dall’elettronica al folk, dal jazz all’ambient, e
molto altro ancora), che non riusciamo davvero immaginare cosa potranno
proporre nella prossima uscita.
E neppure ci interessa immaginare
qualcosa. Certi che ci sapranno emozionare e
spiazzare ancora.
A cura di Morningrise