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19 ago 2021

ALBUM METAL PINKFLOYDIANI: "ASSASSINS: BLACK MEDDLE, PART 1" (NACHTMYSTIUM)


Giungiamo al termine del nostro viaggio nel metal pinkfloydiano e lo facciamo nel peggiore dei modi, ossia con un album metal finto-pinkfloydiano. “Assassins: Black Meddle, Part 1” richiama in modo palese fin dal titolo “Meddle” dei Pink Floyd. I fatti tuttavia parlano diversamente, in quanto, a conti fatti, di pinkfloydiano c’è veramente poco nel black metal tamarro di Blake Judd

Ma a volte è interessante anche soltanto comprendere ed analizzare la percezione che un buzzurro borchiato può avere di una band come i Pink Floyd: una percezione che può essere stravolta dall’ignoranza, dalla superficialità, dalle droghe o anche dalla depressione, tutti aspetti che convivono armoniosamente nella figura tormentata di Blake Judd...

1971: “Meddle” 

Il “Meddle” dei Pink Floyd, nonostante sia considerato un classico, è un album discontinuo, non incanta ad ogni suo passaggio, presenta delle tracce indubbiamente deboli e basa principalmente la sua fama su due soli brani, quelli più noti, che in effetti valgono il prezzo del biglietto. 

Il primo è “One of These Days”, chiamato ad aprire le danze. Brano strumentale (se si eccettua la frase minacciosa recitata con voce distorta dal batterista Nick Mason), esso rappresenta in pieno la capacità dei Pink Floyd nel saper realizzare composizioni iconiche partendo da idee semplici ma efficaci. Qui tastiere e chitarre recitano un ruolo di contorno, ma funzionale al dispiegarsi dell’avvincente basso di Roger Waters

La seconda “hit” è “Echoes”, suite di ventitre minuti e mezzo che, oltre ad occupare l’intero lato B del disco, rappresenta indubbiamente uno dei momenti più alti della poetica pinkloydiana: gli eterei intrecci vocali di David Gilmour e Richard Wright aprono e chiudono un brano-monstre che si sviluppa in modo imprevedibile fra passaggi prog, sublimi intrecci di chitarra ed organo, momenti deliranti di pura psichedelia ed evocativi quanto epici paesaggi sonori. 

Quanto agli altri quattro brani in scaletta, “Meddle” si dimostra ancora figlio di quella stagione un poco naif del rock psichedelico in cui si facevano le cose un po' a cazzo. Non che sia tutto da buttare: ho sempre apprezzato “A Pillow of Winds”, perletta gilmouriana dai suoni soffusi e dall’atmosfera onirica, mentre la folk-balladFearless” non sarebbe stata malvagissima se non si chiudesse con i cori da stadio di “You’ll Never Walk Alone” (inno del Liverpool F.C.). Stenderei invece un velo pietoso su “San Tropez” e “Seamus”, la prima una canzonetta allegrotta da balera, la seconda un strimpellata di chitarra di due minuti con guaiti di cane in sottofondo. 

In “Meddle”, album eterogeneo e caratterizzato da una forte discontinuità qualitativa, i momenti buoni superano indubbiamente quelli negativi, e forse in questa descrizione potremmo trovare delle affinità con il “Black Meddle” dei Nachtmystium

Ma che bestie erano i Nachtmystium? Si iniziò a sentir parlare di loro ad inizio millennio durante la fase di ascesa dell'US Black Metal fra i vari Weakling, Agalloch e Wolves in the Throne Room, ma anche a fianco di eminenze del depressive quali Xasthur e Leviathan, con cui i Nostri hanno sovente collaborato. Pur partendo dalle stesse premesse (Darkthrone, Burzum e le altre glorie della stagione d’oro del black metal norvegese), gli esiti erano essenzialmente diversi: una musica, quella dei Nachtmystium, che sapeva incorporare elementi psichedelici, senza perdere un grammo quanto a velocità e schiettezza.   

La blackedelia dei Nachtmystium, infatti, non puntava alla dilatazione dei suoni né adottava un approccio progressivo, semmai preferiva affidarsi ad una sorta di "effettistica spaziale" che veniva integrata in un corpus sonoro ancora piuttosto violento e sfrontato. Questo accadeva con il terzo full-lenghtInstict: Decay”, l'album della svolta, forte anche dell'appoggio dell'etichetta Southern Lords, ma fu con il successivo “Assassins: Black Meddle, Part 1” che si vollero scoprire definitivamente le carte, manifestando, fin dal titolo, la volontà di essere accostati ad una pietra miliare del rock psichedelico quali sono i Pink Floyd. 

Secondo certa critica, grazie a questo album, i Nachtmystium avrebbero meritato l’appellativo di "Pink Floyd del Black", definizione che non mi trova affatto d’accordo. Blake Judd, infatti, non sembrerebbe molto interessato ai risvolti concettuali della sua musica, rimanendo fondamentalmente un rockettone nell’animo. E forse forse, se si è parlato di psychedelic black metal, è più per le accortezze del produttore Sanford Parker e dei geniali inserti di sax di Bruce Lamont, che per la scrittura in sé, estemporanea ed incline all’umore del momento. 

“Assassins: Black Meddle, Part 1”, infatti, vive di almeno tre anime diverse e non sempre conciliabili. C’è l’anima punk-rock, c’è quella più propriamente thrash/black e c’è infine quella psichedelica, che è la più controversa e che meriterà maggiore spazio nella nostra trattazione...

2008: “Assissins: Black Meddle, Part 1” 

Eppure non si era partiti male, con il vento in poppa che sembrava proprio quello di “One of These Days”: non una coincidenza, visto che il primo brano dell'album si intitola niente meno che “One of These Nights”, epica cavalcata di chitarre che evoca il carattere impetuoso dell’originale. Poi però la versione “nera” di “Meddle” si svilupperà in tutt’altre direzioni. 

Lo spirito più rockettone, efficacemente inoculato in una corazza di fiero metallo, si percepisce bene nella lunga ed avvincente “Assassins”, esplosiva nella prima metà, ferocemente psichedelica nella seconda, con un riff implacabile ammorbato da acidi arpeggi e nebulosi effetti di tastiere. L'anima più propriamente punk-rock emerge nella successiva “Ghost of Grace”, volendo più paracula, ma fottutamente efficace, con il ritornello strillato ed avvincenti melodie di chitarra. 

Your True Enemy” e “Omnivore”, invece, appartengono alla seconda categoria, quella del thrash/black più vischioso: picchiano duro con il compito di tranquillizzare il blackster dal sopracciglio inarcato e in sostanza giustificano la presenza prestigiosa dietro alle pelli di una eminenza come Tony Laureano (Nile, Malevolent Creation, Dimmu Borgir). 

Andiamo invece a vedere di cos’altro si compone questa versione "nera" di “Meddle”, perché invece qua ad incazzarsi è il fan dei Pink Floyd. Si diceva “One of These Nights”, e ci possiamo stare. Dopo un paio di brani ci imbatteremo nella breve strumentale “Away from the Light”: uno spettrale intermezzo basato su un cupo arpeggio, effetti ambientali e rantoli in sottofondo, che poco, in verità, hanno a che fare con l'universo sonoro pinkfloydiano. Da notare inoltre che molti brani sono conditi da una effettistica poco influente e a tratti persino urticante in quanto utilizzata senza criterio in brani che invece sembrerebbero andare nella direzione dell'impatto sonoro. Non saprei dire se nella visione dei Nostri gettare qua e là qualche fruscio significhi fare psichedelia. 

Dovremmo attendere la sesta traccia per stringere tra i denti le prime frattaglie pinkfloydiane. Con “Code Negative” il piede molla l’acceleratore per lasciar friggere le chitarre arpeggiate per quasi sette minuti: qualche accenno di assolo melodico, un intermezzo vagamente beatlesiano e poi degli ariosi assoli di chitarra di chiara marca gilmouriana. Finalmente. 

La suite Seasick”, per lo più strumentale, si divide in tre movimenti e sfiora i dodici giri di orologio, ma anche qui di psichedelia poca poca. “Part 1: Drowned at Dusk” esordisce con un arpeggio beatlesiano (e daje!), per concludersi con un bell’assolo di chitarra, per il quale potremmo nuovamente scomodare il nome di David Gilmour, ma tirandocelo dentro per i capelli . “Part 2: Oceanborne” è un vivace intermezzo dai sapori prog, con una chitarra quasi fusion (ma perché?) ed avvincenti interventi di sax (quello schizzato del grande Bruce Lamont). In “Part 3: Silent Sunrise” Blake Judd torna a sbraitare, ma con una foga giovanilistica che mi ha ricordato i Pixies (avete presente il finale di “Fight Club”?), e meno male che ispirati assoli e un grande sax chiudono la partita, questa volta, si, con toni che possono ricordare una “Shine on You Crazy Diamond”. 

Che dire in conclusione. A volte si ha come l’impressione che il buon Blake Judd un giorno abbia trovato per caso, fra un disco dei Motorhead ed uno dei Morbid Angel, una vecchia cassetta su cui era stata incisa una compilation di rock degli anni sessanta e settanta, con brani di Pink Floyd, Beatles, Hawkwind e, fra le altre cose, del prog canterburiano (per grazia ricevuta!). Sulla base di qualche sensazione superficiale, il Nostro avrebbe poi ambito ad imbastardire il suo black metal, operando con la visione offuscata dell’eroina e della depressione. Perché solo un drogato o un depresso (o entrambe le cose) può aver concepito un album come “Assassins: Black Meddle, Part 1”, lavoro disomogeneo, sconclusionato nel procedere e diviso fra guizzi vincenti, colpi a vuoto e sortite poco comprensibili. 

Si percepisce, nel concepimento e nella realizzazione dell’opera, una grande mancanza di consapevolezza. Se band come Tool e Neurosis, per esempio, hanno saputo essere pinkfloydiani senza mai citare direttamente il repertorio della band inglese, i Nachtmystium utilizzano addirittura il titolo di un album molto noto dei Pink Floyd per intitolare un paio di loro lavori (seguirà “Addicts: Black Meddle, Part 2” - che per la cronaca sarà ancora meno pinkfloydiano), pur probabilmente non conoscendo a fondo la discografia di Gilmour e soci. 

In definitiva lo psychedelic black metal dei Nachtmystium è troppo poco psichedelico per farci credere che i Nostri abbiano realmente un background in quell’ambito, e lo dimostra persino la fumettosa copertina, poco affine tanto all'universo del metal estremo quanto a quello dell'iconografia pinkfloydiana. E’ piuttosto lecito pensare che Blake Judd abbia confuso i Pink Floyd con il rock degli anni sessanta in generale e che, in “Assassins: Black Meddle, Part 1”, si sia fatto prendere la mano ed abbia finito per pisciare fuori dal vaso, salvato in corner dall’ispirazione che, almeno su questo album, si è mostrata abbastanza costante. 

Ma come biasimarlo, forse anche noi abbiamo fatto lo stesso errore, fidandoci troppo della nostra percezione: la percezione di quello che secondo noi è il suono pinkfloydiano, riferendoci invece a tratti stilistici universali professati da una miriade di altri nomi del rock. Ritenendo, forse erroneamente, che ci trovassimo in presenza di una band metal pinfloydiana tutte le volte che è partito un quattro quarti con ariose tastiere sopra, tutte le volte che ci si è imbattuti in un sound magniloquente, in brani particolarmente lunghi, in concept socio-psicologici od esistenzialisti, in una semplice voce con l'eco o ancora più semplicemente in un cane che abbaia in lontananza...
 
The end