All’inizio
degli anni novanta il metal estremo viveva un’altra stupefacente rivoluzione:
una manica di coraggiosi, dalle brumose lande inglese, coniugava con efficacia
death metal, doom ed atmosfere gotiche. Paradise Lost, My Dying Bride, Anathema
proponevano una formula accattivante che fece presto breccia in tutto il mondo
metallico. Seguirono i preziosi contributi di Tiamat, The Gathering, Theatre of
Tragedy e molti altri. Tuttavia, il cosiddetto filone gothic metal, nonostante
le vaste potenzialità evolutive mostrate in origine, approdò presto ad una
goffa imitazione dell’universo dark o del rock psichedelico, per poi (salvo
mirabili eccezioni) arpionarsi nuovamente alla confortevole sponda metal, ma
senza – ahimè – la magia degli inizi. Ripercorriamo insieme questa epopea
seguendo le orme di Mathias Lodmalm, leader dei Cemetary, dei
Sundown e poi ancora dei Cemetary.
Lodmalm
ha il fascino del perdente a cui le cose sono andate sempre storte. Le
sue scelte intempestive lo hanno dipinto come un irrequieto arlecchino danzante
sul carrozzone gothic metal. Dalla fondazione dei Cemetary avvenuta nel lontano
1989, fino all’uscita di scena dopo inenarrabili tribolazioni nel 2005,
Lodmalm è stato un eroe tragico che ha combattuto la sua battaglia nella
solitudine, nell'affanno e nell'amarezza. Una lotta per l’affermazione che ha
assunto i contorni della scriteriata ricerca di una visione artistica (che però
non è mai stata perfettamente messa a fuoco) ed al tempo stesso dell’agognato successo
commerciale (che è sempre rimasto un miraggio a portata di mano). Ansando, annaspando,
arrivando sempre o un minuto in anticipo, o due in ritardo, mentre accanto a
lui tutti, belli e brutti, sembravano cogliere con troppa facilità i frutti
saporiti di un'epoca felice in cui bastava accostare un riff di chitarra a
delle tastiere, o incrociare un growl e delle voci pulite, per ottenere un posticino
al sole.
I
Cemetary nascevano nella fredda Svezia di Entombed e Dismember, all'insegna di
un doom ancora fortemente caratterizzato da un sound death metal (si veda
l'esordio “An Evil Shade of Grey”, del 1992), per poi convertirsi nel
tempo in un qualcosa di maggiormente melodico (“Godless Beauty”, del
1993), decisamente tributario delle sonorità sdoganate qualche anno prima dai
pionieri Paradise Lost (“Gothic”, album manifesto del movimento, era uscito nel
1991).
Con
l'uscita di “Black Vanity” (era il 1994) i Cemetary avevano già perso
ogni ritegno, suonando innegabilmente come i Paradise Lost de'noantri
(l'album era infatti una copia sbiadita di quanto proposto dagli inglesi l'anno
precedente con “Icon”). Il growl veniva completamente abbandonato, la voce roca
di Lodmalm si avvicinava ulteriormente alla timbrica ripulita di Nick Holmes
(che a sua volta guardava a James Hetfield), mentre le chitarre soliste si
muovevano a braccetto con quelle ritmiche come insegnato dal guru Greg
Meckintosh. Il tutto in formato “pocket”, visto che i brani dei Cemetary
erano più brevi e semplici di quelli dei Paradise Lost.
Trainati
tuttavia dal successo degli inglesi, anche i Cemetary, insieme ad una marea di altri
emulatori, furono in grado di raccogliere qualche frutto di riflesso. Ma
attenzione: Lodmalm non è come quell’attore napoletano che vive nel sempiterno
mito di Totò e che in tarda età continua a raccontare di quella volta
che da piccolo incontrò Eduardo De Filippo. No, Lodmalm è un tipo che
guarda avanti, con la spocchia di quello che ci crede, che si auto-suggestiona,
che si sente partecipe e protagonista di un qualcosa di grosso, e che alla fine
si auto-convince di averle inventate lui certe cose.
I
Cemetary giunsero così all’anno 1996 pronti per il grande salto: l’album della
maturità portava il nome di “Sundown”, un capolavoro per i loro standard,
un’opera minore nel più ampio panorama dell’epoca (l’anno precedente era uscito
“Draconian Times”, mentre nel medesimo periodo i Katatonia davano alle stampe
“Brave Murder Day”, e poco dopo i Moonspell avrebbero rilasciato “Irreligious”,
tanto per dare un’idea). “Sundown” mostrava un sound finalmente personale: iniziava
infatti ad emergere il Lodmalm autore, grezzo menestrello, vigoroso
cantore di una decadenza raffazzonata quanto efficace. Ma la vera novità fu che
l’album guardava in modo esplicito alle sonorità ereditate dal calderone della dark-wave
ottantiana, semplificando in senso “canzonetta rock” la materia doom/metal,
andando così ad anticipare (seppur di poco) una tendenza prossima ad esplodere (“One
Second”, l’album della svolta “pop” dei Paradise Lost”, uscirà nel 1997; “Skeleton
Skeletron” dei rivali Tiamat uscirà addirittura nel 1999). Poteva dunque essere
il momento propizio per l'anelato sorpasso, ma le cose non andarono per
il verso giusto. I Cemetary si sciolsero inspiegabilmente l’anno successivo,
dopo l'uscita dello scialbo “Last Confessions”, fatto di brani appena
abbozzati, rilasciato semplicemente per onorare il contratto con la Black
Mark (con la quale vi erano state delle grosse incomprensioni).
In
realtà il materiale maggiormente pregiato venne preservato per altri scopi. Come
certi loschi imprenditori, Lodmalm aveva già iniziato ad operare sotto una
nuova ragione sociale, dietro al paravento di un fallimento fraudolento.
All'ombra dell’ala protettrice della Century Media si erano infatti
formati i Sundown (viva la fantasia!), nuovo progetto di Lodmalm in
collaborazione con Johnny Hagel, altro “genio del tempismo”
nell'universo gothic/metal (egli era uscito dai Tiamat giusto un attimo prima
della vera popolarità, all'indomani della consacrazione avvenuta con “Wildhoney”).
I Sundown di “Desing 19”
non erano però un granché: nella musica di questo album targato 1997 si andavano
a sviluppare le pulsioni electro-goth già latenti negli ultimi Cemetary,
ma nel complesso la premiata ditta Lodmalm/Hagel non convinceva neanche un po’:
poche idee, rese male, bassa ispirazione.
A
loro discolpa c'è da dire che all'epoca tutto il genere viveva una fase di grande
fiacca: tutto ciò che era stato coinvolgente in una veste metal (l'inserto di
violino, le due strofe di voce pulita ecc.), privato della componente metal
diveniva banale. Da un lato l’affanno di non-cantanti che cercavano
disperatamente di contenere le stecche ed estendere un'ampiezza vocale
inesistente; dall'altro ex band death-metal che rinunciavano al proprio
mestiere per dedicarsi, con risultati a volte imbarazzanti, al rock
orecchiabile ed all’elettronica: nel mezzo, Lodmalm non era certamente fra i
più brillanti.
Rimasto
nuovamente solo, egli dimostrerà comunque di credere al progetto Sundown,
dandogli un seguito, quel “Glimmer” che uscirà nell'anonimato più
assoluto. Ancora più ruffiano del predecessore, l'opera seconda dei Sundown
guarderà definitivamente verso lidi extra-metal, pescando un po' a caso dal
repertorio di artisti quali Nine Inch Nails, White Zombie e Marilyn Manson. I
metallari (beata incoscienza) lo ignorarono; per il pubblico industrial-rock l’operazione
sapeva di minestra riscaldata (“Du Hast” dei Rammstein impazzava da un paio di
anni nelle piste delle rockoteche di tutto il mondo; il Reverendo aveva
fatto “il giro di boa” l’anno precedente con “Mechanical Animals” per poi
iniziare la sua discesa inesorabile; Trent Reznor con il colossale “The
Fragile”, invece, volava già in un’altra galassia; gli White Zombie non
esistevano più). Qualitativamente parlando, il risultato era il solito album di
Lodmalm: né carne né pesce, con la sola variante che adesso il Nostro portava i
capelli viola e giocava a fare il bel tenebroso. Per sua sfortuna proprio in
quell’anno gli HIM se ne uscivano con il loro album di maggior successo
commerciale (“Razorblade Romance”). Risultato: cagato zero!
La
scarsa risposta in termini di vendite porterà Lodmalm a chiudere definitivamente
l'esperienza e riesumare la sua vecchia creatura. Arriviamo così ai Cemetary
1213: la lieve variazione del monicker sta probabilmente a significare che “sì,
si torna a fare metal, non dimentichi però della piacioneria
electro/industriale dell'incarnazione precedente”. Concetto che troviamo ribadito
nella copertina plasticona, nella quale viene ripescato l'uccellaccio
spennato di “Sundown” (che già all'epoca puzzava tanto di Katatonia), ma in
formato cyber-punk (!!). Tornano così i Cemetary versione 2.0: “The Beast
Divine” (un concept apocalittico fuori tempo massimo) esce nel 2000 e in
esso Lodmalm decide di lasciar perdere sample e programmi per
riabbracciare la sua chitarra e tornare a fare la voce grossa.
Lodmalm
si riconferma dunque un onesto ruffiano: onesto perché continua a
scrivere alla sua maniera (ce l'ha uno stile suo, una sua poetica, un modo di
cantare, di suonare la chitarra, è questo che ci fa incazzare, perché se non
gli fosse pigliata la mania dei “modernismi” ed avesse sviluppato la sua
identità proseguendo sulla via imboccata con “Sundown”, oggi probabilmente
sarebbe considerato un rispettabile artigiano del doom). Ruffiano
perché non c’è stata scelta nella sua carriera che non sia stata dettata dal
voler in qualche modo piacere, finendo però per raccogliere i frutti magri di
un prodotto musicale che vuole dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, ma
che ci lascia con la bottiglia quasi vuota e la moglie appena brilla.
Come
son brutti, del resto, i revival: nel panorama gothc/death ne troviamo a
bizzeffe, e in questo i Cemetary di Lodmalm non sono un'eccezione. L’operazione
passerà dunque inosservata, anche perché il Nostro non potrà mai contare sulla
fedeltà incrollabile di uno zoccolo duro di fan, i quali nel corso degli anni si
erano, delusione dopo delusione, dileguati. Si prenderà altri cinque anni di
pausa, il Lodmalm, girovagando per tre continenti, alla ricerca
dell'ispirazione perduta, per dare alla luce un altro lavoro (nel 2005 verranno
riesumati i Cemetary senza la variante del 1213). Ma l'epitaffio “Phantasma”
(che Lodmalm confezionerà completamente da solo) sarà anche il suo canto del
cigno: innanzi all'ennesima delusione in termini di vendite, il nostro eroe,
amareggiato, si ritirerà dalle scene, lasciando ben poco in pasto ai posteri,
se non il ricordo sedimentato nella mente incancrenita di qualche appassionato
del genere di quegli anni.
Tipo
noi.
P.S.
apprendo ora sull’internet che nel 2013, dopo anni di silenzio, il Lodmalm si è
rifatto vivo con una nuova band, i Lords of Saturn. Voi lo sapevate? Io
no, e dal fatto che non vi siano recensioni in rete di questo lavoro, mi par di
capire che non sia stato quel gran successone…