"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 apr 2015

"SHINING", KING, KUBRICK, LA PAURA, IL METAL, I PROFESSIONISTI ED ALTRE COSE




Ho sempre considerato Stephen King un artista di serie B: dopo qualche inevitabile lettura in gioventù, l'ho brutalmente scaricato in quanto scrittore di genere, autore in serie di best-seller, tutto inventiva e cattiva scrittura. Poi circa due mesi fa, inaspettatamente, l'ispirazione: ho letto “Shining”. E ho dovuto cambiare idea.

(A proposito: in questo mio scritto NON CI SONO SPOILER, così anche i pochissimi (esisteranno?) che non hanno visto il film, o non sanno nulla della trama, potranno leggere!)


Approccio alla lettura. Per chi ha visto il film è francamente impossibile non rievocare le immagini della pellicola, le ambientazioni, i personaggi così come li ha immaginati e voluti ritrarre Stanley Kubrick (impossibile, ad esempio, dissociare la figura del protagonista Jack Torrance dalla magistrale interpretazione di Jack Nicholson). Questa sovrapposizione è per il romanzo un vantaggio, ma al tempo stesso ha un effetto deleterio. Da un lato la profondità, sostanziale e formale, del film (per certi aspetti superiore) conferisce spessore alla scrittura didascalica di King. Dall'altro, sebbene la trama rimanga avvincente, il fatto di conoscerla (ad esempio: sapere fin dall’inizio cosa è redrum o chi si cela al di là della porta della fatidica camera 217) stempera un poco la tensione. Ma solo un poco, perché il lettore rimarrà ugualmente incollato alle quasi seicento pagine. E questo è indubbiamente un merito del King scrittore. 

Introduco quindi il primo tema: se le cose sono in una certa maniera, un motivo ci dovrà pur essere. Traduco: se Stephen King, e non Pinco Pallo, è considerato il Maestro del Brivido, una spiegazione c’è. E la spiegazione, paradossalmente, è che evidentemente Stephen King sa scrivere. E' un errore di analisi criticare King se non è in grado di scrivere con la grazia e la ricchezza lessicale di Gustave Flaubert o se non ha la profondità di pensiero di Albert Camus. In ogni nostra valutazione bisogna sempre chiederci quale è il reale obiettivo di un artista e capire se questo obiettivo, in rapporto alle qualità dello stesso autore, è stato perseguito efficacemente e poi raggiunto. Se King voleva farci paura, egli indubbiamente ha vinto.

Quanti autori sanno veramente far cagare sotto dalla paura? In questo ambito devo per forza tirare in ballo mostri sacri come Edgar A. Poe e H. P. Lovecraft. Questa è gente di altri tempi, maestri del mistero, della suspense e dell'atmosfera. King, nanetto sulle loro spalle, è tuttavia uno che fa paura nella società mediatica di oggi, che è ben diverso che far paura nell'era della lettura o della trasmissione orale, quando le storie erano raccontate di notte al crepitio del fuoco nel caminetto. Oggi, bombardati continuamente da immagini di ogni tipo, messi in contatto con ogni angolo più recondito di questo mondo, siamo lettori più smaliziati e meno suggestionabili di quelli di una volta, che credevano al Baubau. Quando, per esempio, Herman Melville scriveva “Moby Dick”, le balene per l'uomo medio erano ancora creature mitiche e fantastiche. I movimenti, i gesti di Jack Torrance, le sue parole, sono televisive, cinematografiche, materiali, tangibili, egli si muove nello spazio ad una velocità e con una pesantezza triple rispetto ad un Gordon Pym o ad un Auguste Dupin. Poe del resto non era interessato all'azione vera e propria. Cambia quindi la percezione dello spazio in relazione al tempo: King lavora a più livelli, una quantità che diviene qualità. Ogni strato (descrizione degli ambienti, approfondimento psicologico dei personaggi, qualità dei dialoghi ecc.) ci potrà apparire grossolano, ma tutti questi messi insieme, orchestrati in una micidiale sequenza, edificano un quadro decisamente complesso e difficile da concepire e mettere in pratica.

La strategia della tensione adottata da King è similare a quella allestita da Poe nel racconto “La Maschera della Morte Rossa”, per altro citato in più di un frangente. Imperversa la peste, il Principe Prospero si rinchiude con i suoi amici in un castello inespugnabile. Una sera egli allestirà una gran festa in maschera. La gaiezza degli invitati è però periodicamente interrotta dai lugubri rintocchi dell'orologio a pendolo, presagio di un qualcosa di terribile: tutto si ferma, la musica e gli schiamazzi; durante questi interminabili istanti vige il gelo e l’incertezza. Poi, dopo l’ultimo rintocco, d’incanto tutti riprendono a ridere, scherzare, ballare, increduli dell'inquietudine provata fino al momento precedente. Tutto come prima, dunque, fino ai rintocchi dell'ora successiva, quando tutto si ferma di nuovo, ed il terrore sarà più forte, perché la medesima situazione si ammanta di nuovi inquietanti elementi che nel frattempo erano stati introdotti.

In proporzione diverse (la lunghezza di un romanzo, rispetto al formato limitato del racconto, permette maggiori margini di manovra), la stessa dinamica si ripete in “Shining”: tutta la prima parte non è altro che una lenta preparazione a quello che succederà poi. Quelle digressioni, quei pensieri, quei flashback sul passato dei personaggi che ci sembrano un inutile contorno di basso livello letterario al nocciolo della storia, diverranno funzionali nel momento in cui si dispiegherà l'azione vera e propria. Ed allora sì che il maestro dell’horror e del thriller entra in scena. Già sei angosciato per l'atmosfera collettiva, accuratamente costruita in un inesorabile ed impercettibile crescendo di tensione. Poi arriva la brutta situazione A, a cui s’abbina l’ancor più brutta situazione B, alle quali subentra l'inaspettata e bruttissima situazione C, vista in precedenza e che avevi quasi dimenticato. Nella ripetizione ed accumulo di elementi confezionati ad arte, non c'è tregua: la tensione ti attanaglia, ti soffoca, vorresti smettere di leggere, ma non puoi non andare avanti nella lettura per afferrare il nucleo rovente. E nel momento esatto in cui tutto è sull'orlo di sconfinare nella pagliacciata (come succede di frequente nella piccola letteratura di genere), o scemare nel niente (come a volte capita nella vacua letteratura contemporanea, che oscilla continuamente fra fasi di tensione e rilascio fini a se stesse) King risulta concretissimo e la sua mano è in grado di tenere fermo il timone, con gran rigore e scientificità. Inaspettatamente la penna rozza di King diviene in grado di tratteggiare immagini straordinariamente vivide e penetranti: un orrore visivo che va a braccetto con la violenza più esplicita e materiale. Ed è in quel momento che capisci la superiorità del professionista, del giocatore concentrato che segna il gol quando è il momento di farlo. Il concetto, in definitiva, è: King è un professionista e il suo mestiere è far paura. Non far piangere, non far riflettere.

Arrivo dunque al punto: in questo aspetto trovo un parallelo con il mondo della musica, e con il metal in particolare. Spesso si parla del metal come fenomeno artistico di infima categoria. I più superficiali diranno che si tratta di solo rumore e che i musicisti metal non sanno suonare, ma a certe critiche il metallaro scafato non s'incazza più ed al massimo sbadiglia: al di là che oramai solo i fan di Gigi D'Alessio non sanno che anche il “rumore” può essere una forma d'arte, il metal dispone al suo interno di un esercito di musicisti tecnicamente preparati, con una visione artistica matura e capaci di mettere insieme cose assai complicate (e spesso non lontanamente concepibili da musicisti provenienti da ambiti anche colti, come nel caso dei folk-singer).

Proviamo invece a confrontarci con chi di musica se ne intende. Il ritornello più comune è il seguente: è una questione di sensibilità, la capacità di esprimersi (sia a livello lirico che a livello musicale) del musicista metal è elementare e puerile a prescindere dal bagaglio tecnico in suo possesso. Il fatto è che il metal ha delle caratteristiche intrinseche che solo dal proprio interno possono essere capite. E a volte nemmeno da lì dentro (che Varg Vikernes è un poeta non lo capisce nemmeno il metallaro medio). Come in letteratura, bisogna vedere cosa l'artista vuole comunicare. Stephen King è il maestro dell'horror: ci fa paura, e lo fa meglio di tanti altri autori più blasonati che a volte vorrebbero fare un pochino di paura, ma non ci riescono con la stessa efficacia. Semplicemente non è il loro mestiere (esempio: ci sono diverse scene cruente nei romanzi di Umberto Eco, ma che risultano insipide ed artificiose). Allo stesso modo in certe forme sperimentali di jazz/noise/elettronica troveremo passaggi di immane violenza, ma non gestiti con quella scientificità, con quella professionalità, con quella serietà con cui lo fanno ad esempio gli Slayer, violenti per professione: c'è una sorta di matematica dell'Estremo che il metal utilizza e che altrove è sconosciuta.              

Altro tema: l'umanità. Il metal è un genere musicale molto umano, perché la gente che lo suona (ma anche chi lo ascolta) è figlia di una passione molto forte, quasi una religione. Fate un test: laddove anche il metallaro meno colto è in grado di raccontarti a memoria discografie intere, inanellando i più svariati cambi di formazione, il più acculturato indie-rocker spesso non riesce a padroneggiare con la medesima sistematicità la discografia dei suoi beniamini. Forse perché prende la musica meno seriamente del metallaro: sono approcci diversi, e il metal ha il suo, che poi non è necessariamente meglio degli altri, ma è un approccio forte, viscerale, e in questo rapporto maniacale c'è moltissima umanità. Un'umanità che finisce per trapelare oltre le trame di tanti cliché.

Allo stesso modo “Shining”, nonostante sia un romanzo di genere, contiene grandi dosi di umanità, sicuramente più di quanta ve ne sia in Baricco o in Houellebecq. E vi dirò: è più autentica quell'umanità o quella poesia che, come nel metal, escono per sbaglio, che quelle sapientemente costruite dai cosiddetti “artisti nobili”, la cui arte è spesso mediata da costruzioni intellettualoidi che ne sviliscono la vitalità. Prendete quei momenti in cui Jack Torrance (ma che bel nome!), scrittore fallito ed ex-alcolizzato, s’inizia, in maniera crescente ed inesorabile, ad incazzare con sua moglie Wendy, creatura insicura e piena di paturnie, che lo stressa dalla mattina alla sera con preoccupazioni a suoi occhi inesistenti. Non è la stessa sensazione che provi quando scrivi il tuo pezzo per Metal Mirror e ti interrompono continuamente? (Fra l’altro, detto per inciso, son convinto che, proprio in questa ben descritta insofferenza nei confronti di certi tratti dell’universo femminile, Kubrick, notoriamente artista misogino, ha trovato la sua Illuminazione!)

Oppure considerate quei momenti in cui l'albergo, il temibile Overlook, diviene teatro soffocante di angherie e, come in un'orchestra del male, tutti gli elementi iniziano a marciare all’unisono creando quel clima claustrofobico fatto di una, due, tre minacce che messe in fila diventano qualcosa di realmente insopportabile per chiunque: non è la stessa sensazione che si prova, magari a lavoro, quando, attaccati da più fronti, iniziamo ad incassare un colpo dopo l’altro, e quindi non ci resta che inspirare/espirare per scongiurare gli attacchi di panico e, proprio quando dici “adesso reggo, adesso reggo, ma non so per quanto”, TAC!, arriva la mazzata finale dalla direzione che meno ti aspetti? E' un'umanità, un'aderenza al Reale, che trapela oltre l'invenzione, oltre l'elemento fantasy.

Idem nel metal: se ci si ferma a diavoli & caproni, spade & draghi, logicamente saremmo portati a liquidare l’intero genere come roba per adolescenti rincoglioniti. Quando in realtà, il vero messaggio del metal è nel metal stesso, oltre i suoi luoghi comuni, nel suo linguaggio, nella forte umanità di chi lo suona, nell’improbabile poesia che a volte scappa fuori, nella genialità o nell’intelligenza compositiva che, in quella data maniera e con quell’approccio, è patrimonio del solo metal e non di altri generi.