"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

2 mar 2016

ITALIA OSCURA: PAUL CHAIN, ANTONIUS REX, THE BLACK (parte seconda)


 


I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL

APPENDICE II: “WHITED SEPULCHRES” (PAUL CHAIN), “MAGIC RITUAL” (ANTONIUS REX), “CAPISTRANI PUGNATOR” (THE BLACK)

Abbiamo citato Death SS e Paul Chain, ma la nostra brevissima rassegna sul lato oscuro del metal tricolore (analizzato dal punto di vista del tema del “brano lungo”, oggetto della nostra classifica) ha ancora due soste obbligate da rispettare.

Dalle vicine Marche, ecco che troviamo un altro maestro delle sei corde, tale Antonio Bartoccetti, leader prima dei Jacula, poi degli Antonius Rex. Avendo come musicista un background progressivo, egli non ha mai disdegnato il “brano lungo”, sebbene la sua arte abbia davvero poco a che fare con le suite barocche dei grandi nomi del progressive rock.

Nella prima parte della carriera i suoi brani non contemplavano neppure l’elemento percussivo, affidandosi esclusivamente alle inquietanti liturgie di un organo a canne, qua e là macchiato dalla chitarra elettrica, la quale sembrava cavalcare in un “nulla” che odorava di esperienza mistica (e non è un caso che nella formazione presenziasse anche un medium!). Gli enigmatici versi di Bartoccetti, recitati con serafico distacco dallo stesso chitarrista, facevano da inafferrabile didascalia ad una musica che solo con una grande apertura mentale possiamo definire prog. “Magister Dixit” (10:32), ”In Cauda Semper Stat Venenum” (10:05), “Presentia Domini” (10:50) sono tutti brani realizzati sotto la ragione sociale Jacula (esperienza che ebbe vita fra il 1969 e il 1972) e che superano tranquillamente i dieci minuti. Ma non è che in essi succeda molto, perché evidentemente la lunghezza del brano era volta unicamente a creare atmosfera, o, come da intenti dichiarati dei suoi autori, dar vita ad un flusso sonoro che inducesse l'ascoltatore a trascendere il dominio del Reale.

Con gli Antonius Rex la solfa non cambia, sebbene nel debutto “Neque Semper Arcum Tendit Rex” (1974) voci e chitarre fossero maggiormente presenti: l’approccio più pragmatico (più rock, se vogliamo), faceva sì che i brani non si protraessero per lunghezze spropositate, ma anzi si muovessero in schemi maggiormente intellegibili. Nel capolavoro “Praeternatural” (1979), dalle ambizioni più sperimentali, spiccano invece almeno tre brani che avremmo potuto contemplare nella nostra rassegna: “Halloween” (10:08) “Capturing Universe” (10:47) ed “Invisible Force” (10:47), brani pressoché strumentali che vedevano la loro forza nel connubio vincente fra l’estro chitarristico di Bartoccetti e le prodezze ai synth della moglie Doris Norton (già presente nella formazione dei Jacula).

La nostra scelta, per non far torto a nessuno, è alla fine ricaduta sul brano più lungo di tutti, quella “Magic Ritual” che nel 2004 sancì il ritorno degli Antonius Rex sul mercato discografico dopo più di vent’anni di latitanza. Un ritorno alla grande, con un lavoro “breve” (un EP contenente un brano di ventun minuti e cinquantasette secondi, seguito dalla sua versione ridotta, a beneficio degli amanti della sintesi). Sebbene il concepimento del brano risalisse alla seconda metà degli anni settanta, esso incarna tutti i crismi degli Antonius Rex del terzo millennio. Suoni un po’ patinati ed ampi spazi all’”orchestra sintetica” ammaestrata dalla fondamentale Doris Norton: l’utilizzo di strumenti all’avanguardia permette alla musicista di mettere insieme suoni che vanno dagli archi sintetizzati a rumoracci d’atmosfera. Sovrapponendo e sovraincidendo, con l’aggiunta di basi elettroniche (che già erano state introdotte nel citato “Praeternatural”) il risultato è un po’ pacchiano, ma porta con sé quella grandiosità che di certo non dispiacerà agli amanti del metal sinfonico.

“Magic Ritual” fa suoi gli assunti dei tre episodi di “Praeternatural” che abbiamo non a caso citato prima, annettendo a sé, in modo organico e con grande equilibrio, le costruzioni gotiche, le stratificazioni dei synth, le architetture più canonicamente prog di “Halloween”; un riff di chitarra cazzuto che emerge dalle tenebre così come accadeva nella mitica “Capturning Universe”; l’approccio rituale, la deriva dark-ambient, una ricerca sonora fatta di “elementi pescati dall’Aldilà”, che avevamo ritrovato in “Invisible Force”. Voci, sussurri, inserti vocali da parte della medium Monika Tasnad sono le uniche vocalità presenti in un brano fondamentalmente strumentale che, ahinoi, rinuncia al suggestivo recitato di Bartoccetti, ma non, ovviamente, alla sua chitarra!

Per udirla, tuttavia, ci vorranno almeno cinque minuti, nel corso dei quali si erano succedute imponenti orchestrazioni condite da umori da seduta spiritica (sussurri di strega, vagiti all’ectoplasma e tutto quello che ci possiamo aspettare da un brano dei tardi Antonius Rex!). L’ingresso per Magus Antonio è in punta di piedi: singole note pizzicate di chitarra classica che si intromettono discretamente sull'incedere à la Carmina Burana della composizione.

Sarà verso il settimo minuto che, preceduta dal montare del basso (molto in stile Goblin, direi), si avventa su di noi in tutta la sua potenza la chitarra elettrica, un bell’esercizio sabbathiano come Dio (Iommi) comanda: riff taglienti al limite del thrash supportati, per la prima volta nella storia del gruppo, da un batterista in carne ed ossa (il session-man Jean-Luc Jabouille). Fa uno strano effetto sentire la batteria in un album degli Antonius Rex e forse la presenza dello strumento rende tutto più canonico, ma niente toglie che di tanto in tanto anche il riffing ossessivo di Bartoccetti possa godere del beneficio di un supporto ritmico. Anche Doris Norton non si tirerà indietro, fornendo alla “causa rock” il suo fondamentale contributo con accattivanti linee di tastiere che sicuramente evocheranno all'ascoltatore l’estro orrorifico del maestro Claudio Simonetti.

Da segnalare un pregevole inserto di pianoforte dagli eleganti risvolti jazz cortesemente fornito da Rexanthony, il prodigioso figlio della coppia, che fino ad allora era stato più che altro noto negli ambienti dell’elettronica più spinta (e danzereccia…). Bartoccetti, verso il quindicesimo, infila un bell’assolo dei suoi, rendendo ancora più prelibato un piatto fatto di azzeccate alternanze fra atmosfera e riff martellanti. La conclusione è invece affidata alle meditazioni della Norton, che negli ultimi minuti si addentra nei territori dell’elettronica minimale, a dimostrazione di quanto quella donna (vero motore dell’Antonius Rex Sound) ami tenersi aggiornata e sperimentare nuove sonorità (è doveroso ricordare che la signora, negli anni settanta, usava apparecchiature ignote persino a Brian Eno!).

Le frequenti pause, gli scossoni da infarto, fanno sì che la tensione cresca, proprio come succede in un film thriller, ove si vive sul chi-va-là nell’attesa che qualcosa accada. E non è un esempio a caso, quello del film thriller, perché, a detta degli autori, il brano (una sequela di simbologie difficile da tradurre) si sviluppa sulla base di una sceneggiatura vera  e propria. Ricordiamo infatti che l’EP uscì nel curioso formato di CD doppio-uso: da un lato audio, dall’altro video, fungendo dunque anche da DVD, grazie al quale diveniva visionabile un videoclip/cortometraggio diretto dalla stessa Doris Norton.

Ma “Magic Ritual” non sarà l’ultimo esperimento nella direzione del brano di estesa durata. La produzione artistica della premiata ditta Bartoccetti/Norton continuerà ad abbondare di brani lunghi, basti citare “Switch on Dark” (19:28) e “Fairy Vision (Esoteric Edit)” (14:26) da “Switch on Dark”. O la raggelante “Antonius Rex Prophecy” (11:14), da “Per Viam”: struggenti partiture di pianoforte ammorbate dalle apocalittiche visioni di Charles Tiring (l’oramai defunto organista ottantenne (!!!) dei tempi dei Jacula) enunciate dal sempre laconico Bartoccetti.

Parleremmo ore ed ore di Jacula ed Antonius Rex (e sicuramente torneremo a parlarne), ma per noi è tempo di volgere il nostro riflettore sul terzo personaggio della nostra mini-rassegna dedicata al lato oscuro del Bel Paese. Spostiamoci nuovamente a sud e torniamo infine in Abruzzo (sarà forse la stretta fra Appennini e Mar Adriatico a far germogliare tali mostruosità metalliche entro i patri confini?): Mario Di Donato è un’altra eminenza del dark metal nostrano che vale sempre la pena ricordare. Fattosi le ossa in una serie di formazioni più o meno leggendarie della New Wawe Of Italian Heavy Metal (U.T., Unreal Terror, Requiem), egli avvierà il suo progetto solista denominato The Black: a scapito del monicker in lingua inglese (ma perché?), Di Donato canterà rigorosamente in latino (salvo qualche sporadico tentativo in italiano), perché il legame fra il metal targato The Black (Metal Mentis, “metallo della mente”) e arte (Ars Mentis, “arte fantastica della mente”) è saldissimo, non foss’altro che Di Donato stesso è ispirato pittore e i suoi pregevoli dipinti correderanno sistematicamente le confezioni delle sue uscite discografiche.

Sebbene al suo estro chitarristico sia concesso di esprimersi con grande libertà, Di Donato ha un approccio più pragmatico e più canonicamente metal rispetto a Catena e Bartoccetti, per questo il format del brano lungo non è frequentissimo nella sua discografia. Un bell’esempio lo troviamo nell’album “Golgotha”, in occasione dell’audace rivisitazione de “Il Giudizio” dei Il Rovescio della Medaglia, quasi undici minuti di rovente prog in cui la chitarra di Di Donato spazia in lungo e in largo mostrando perizia, inventiva e personalità sprizzante da tutti i pori. Ma il nostro riflettore sarà proiettato altrove.

Capistrani Pugnator” usciva nel 2003 in contemporanea con un altro bell’album, “Peccatis Nostris” (la versione in cd li contiene entrambi) e va a ribadire questo legame con l’arte, in particolare con quella della terra abruzzese. Il Guerriero di Capistrano è infatti una statua calcarea risalente alla seconda metà del VI secolo A.C., oggi esposta nel Museo Nazionale di Antichità di Chieti. L’album contiene solo cinque brani, ma in compenso l’ultimo, la title-track, conta ben quattordici giri di orologio. E a mio modesto parere, esso rappresenta una delle più belle manifestazioni di doom classico mai partorite dall’heavy metal tutto, alla faccia dei vari Candlemass e Solitude Aeternus.

In questo gioiello la classe e l’eleganza chitarristica di Di Donato costituiscono il maggior pregio, sebbene Enio Nicolini (basso) e Gianluca Bracciale (batteria), vecchie volpi del metallo nostrano, non siano certo dei comprimari da poco. Ma è Di Donato la Luce che illumina il cammino, colui che si fa carico della scrittura e del corpus sonoro dell’intera operazione. Quanto alle parti cantante, a questo giro egli preferisce cedere il microfono a Eugenio “Metus” Mucci (che aveva cantato nei Requiem) e Ben “Prime Target” Spinazzola (dei Prime Target, appunto), facendo sì che la sua affascinante creatura musicale acquisisse nuove sfumature.

“Capistrani Pugnator” come brano rimane un vero capolavoro, che potremmo per comodità suddividere in tre sezioni, sebbene il tutto debba essere percepito come un unicum sonoro e tematico. E’ la prima parte quella più sensazionale, caratterizzata da un ispirato riffing doom. La chitarra solista disegna melodie antiche, solenni, magiche (secondo me derivate dalla musica sacra, di cui sicuramente Di Donato è profondo conoscitore), mentre il cantato, prima appena sussurrato, poi fieramente epico e graffiante, dà forza e vigore ad un brano che, salvo queste prime battute, sarò affidato esclusivamente alle convulsioni strumentali di un grande chitarrista e dei suoi validi compari. La seconda parte, scandita dal battito regolare della batteria, assume le sembianze di un antico rituale di guerra, con la chitarra di Di Donato ancora una volta protagonista nel tessere funeree liturgie di grande suggestione. La fase finale del brano, caratterizzata da un maggiore dinamismo a livello ritmico, sarà invece il palcoscenico ideale per le scorribande chitarristiche del Nostro, diviso fra ritmiche serrate ed assolo di gusto sopraffino a scaldare il cuore.

Quello che infatti si respira in The Black è il calore del doom classico, quello schietto di una volta, evocatore di paesaggi ancestrali e mondi fantastici, ma anche irrimediabilmente animato da un intento costruttivo in cui batteria, basso e chitarre (lo chiamavano heavy metal…) dialogano senza tanti fronzoli, edificando alchimie francamente esaltanti.

In conclusione, quello che rappresentano “Whited Sepulchres”, “Magic Ritual” e “Capistrani Pugnator” è proprio quell’accezione di doom in cui un solo uomo, solitario, eroico, diviso fra chitarra e canto, trasforma il rock o il metal, in una estrinsecazione del proprio ego. Prima ancora che sulla forza di un team, il doom si va a fondare sulla forza dell’individuo, spesso un profeta capace di celebrare, illuminare il cammino dei suoi accoliti. Proprio quello che facevano (ed ancora fanno) Paolo Catena, Antonio Bartoccetti e Mario Di Donato.

Lunga vita ai tre!