"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

4 mar 2016

BLUE MURDER, "SOLO PROJECT" DI LUSSO


I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI '80)

1989: "BLUE MURDER"

Steve Lukather, Yngwie Malmsteen, Joe Satriani, Mark Kendall, Eddie Van Halen, Randy Rhoads, Adrian Smith, Dave Murray, Janick Gers, Michael Schenker e…John Sykes!

11 nomi, una bella squadra di…chitarristi! Una generazione d’oro nata in quel lustro che va dal 1955 al 1959. Cinque anni in cui il Fato, in diversi angoli del globo, si divertì a spargere a piene mani classe e ingegno in questi pargoletti che così tanto, una volta diventati adulti, avrebbero dato alla musica rock e metal.

A cura di Morningrise

Di questi probabilmente il meno famoso, assieme a Kendall (talentuoso axeman degli ottimi Great White), è proprio Sykes, che avevamo già trattato in maniera fuggevole nel post dedicato ai Praying Mantis. Allora ne avevamo decantato le lodi a proposito della sua breve permanenza nei mitici Tygers of Pan Tang.
Ma in quest’ultimo post della nostra Rassegna sulle cult band anni ottanta lo ritroviamo in una veste diversa: leader del progetto Blue Murder. Per la precisione un solo-project.
Si, mancava ancora questo nella nostra trattazione. Dopo aver descritto le casistiche più disparate, le sfighe più assurde che non hanno consentito ai gruppi precedentemente trattati di sfondare come avrebbero meritato, ci mancava l'approfondimento della tipologia del solo-project.

John Sykes ha caratterizzato la sua trentacinquennale carriera da numerosissime collaborazioni. Dai, Tygers of pan Tang, come detto, ai Whitesnake; da progetti solisti (più d’uno peraltro) al suo impegno principale: gli storici Thin Lizzy.

E fu proprio per riportare in vita i Thin Lizzy, intorno alle metà dei '90, dopo la prematura morte del loro talentuoso leader Phil Lynott, che Sykes decise di lasciare morire i Blue Murder.

E fu davvero un peccato. Perché tutto quello che uscì a marchio B.M. (due album in studio ed un live dedicato proprio alla memoria dello scomparso Lynott) era stato, fino a quel momento, di qualità ottimale.
La band si configurò subito come una creatura personale del lungocrinito John, visto che, intorno alla sua carismatica figura, fece ruotare sempre diversi elementi, cambiandoli a più riprese.

Ci vogliamo soffermare oggi al debut omonimo, in cui il chitarrista di Reading si fa accompagnare da altri due musicisti d’eccellenza: al basso troviamo un altro ex-Whitesnake, Tony Franklin (soprannominato "fretless monster", tanto per dare un'idea delle sue abnormi capacità tecniche), mentre dietro le pelli presta la sua magistrale opera un altro session man di lusso, Carmine Appice, che, tra le altre, vanta collaborazioni di assoluto prestigio con King Cobra, Vanilla Fudge e Rod Stewart.

Accolti da una copertina meravigliosa, suggestiva come poche, i primi due pezzi, “Riot” e “Sex child” mettono subito le carte in tavola: due mid-tempos carichi e sanguigni, vergati dalla voce calda ma graffiante di Sykes, accompagnato nei cori dagli altri due fidi compagni e con il basso di Taylor in bella evidenza, che per l’occasione si lancia in funambolismi corposi e carichi di groove. 
Gli spazi per la Les Paul di Sykes ovviamente ci sono, sempre tecnici ma mai stucchevoli, funzionali al sound e mai strabordanti.

Ma è in terza posizione che troviamo la perla del disco, quella “Valley of the Kings” che John ha scritto a quattro mani con…Tony Martin!! Si, proprio lui, l’ex Black Sabbath dà il suo contributo con questi 7 minuti e rotti che riportano alla mente i grandiosi dischi che il cantante di Birmingham aveva poco prima inciso con i padri del Metal, che proprio quell’anno se ne venivano fuori, sempre con Martin alla voce, l’ottimo “Headless Cross” e si preparavano a pubblicare l’anno successivo l’enorme “Tyr”, di cui “Blue Murder” (non prendetemi per pazzo!) anticipa alcune soluzioni. E proprio “Valley of the Kings”, (assieme all’altro highlight sabbathiano del disco, la splendida “Ptolemy”) sono probabilmente i due pezzi maggiormente rappresentativi della magniloquenza dei Nostri.

I tre dimostrano anche di sapersi divertire, senza prendersi troppo sul serio, dilettandosi anche in un focoso blues in “Jelly Roll”, canzone palesemente scritta per le esibizioni live, così come “Billy”, altro brano dal formidabile “tiro live”.
Non poteva poi mancare il lento strappalacrime d’ordinanza, ma non sdolcinato, “Out of Love”, dotata di un bridge geniale che ci porta dritti verso un refrain urlato a squarciagola da Sykes.
E se le tastiere di Nik Green, elemento aggiunto molto importante per le atmosfere e la resa complessiva del disco, è ancor più fondamentale per la stessa anche la produzione del controverso Bob Rock. Si proprio lui, il produttore canadese che di lì a beve avrebbe cominciato uno dei sodalizi, quello coi Metallica, più controversi della storia del metallo. Ma in questa occasione, giù il cappello: il suo lavoro fa risaltare in modo perfetto il mood caldo e avvolgente delle trame partorite da Sykes

Un disco quindi duro ma al contempo strafottente, scritto da artisti capaci di coniugare potenza e classe: due elementi che si intersecano continuamente, si scambiano i ruoli, fanno a botte per poi fondersi assieme in un tutt’uno da pelle d’oca. Un disco che dimostra che l’hard rock (o hard n’ heavy che dir si voglia) quando è composto da musicisti con i controrazzi è capace non solo di strappare applausi, ma anche di sapersi imporre, emergendo prepotentemente, nell’ampia famiglia del Rock.