"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

31 lug 2015

W.A.S.P.: "CHI OSA VINCE!"




I 10 MIGLIORI ALBUM GLAM METAL

CAPITOLO 5: “THE LAST COMMAND” (09/11/1985)

No, non stiamo parlando dei patetici fautori della supremazia dei Bianchi-AngloSassoni-Protestanti; e neppure, anche se il dubbio in tal senso permane visto che gli stessi interessati fecero passare questa interpretazione, di temibili Pervertiti Sessuali (We Are Sexual Perverts). Più banalmente invece abbiamo a che fare con una Vespa, insetto fastidioso e pungente. Impersonificata da un Oscuro Senzalegge

A cura di Morningrise

Cari lettori di MM, siamo così giunti a metà del nostro viaggio alla (ri)scoperta di quelli che, a nostro modesto avviso, sono i dieci album Glam Metal maggiormente rappresentativi degli anni ’80.

E, gioco forza, non potevamo che trattare uno dei maggiori madman della Scena americana della decade, quel Steven E. Duren che passerà alla storia col nome di Blackie Lawless (e che il nostro Blog ha recentemente trattato), proveniente da Staten Island, la parte più meridionale e meno popolosa di New York City.

Come i lettori più attenti si ricorderanno, nella terza parte dell’Anteprima avevamo citato tra le influenze dei gruppi glam anche il c.d. shock rock settantiano, che vedeva in Alice Cooper e nei Kiss i gruppi di punta.
Il nostro Blackie merita di entrare nella nostra lista proprio perché rappresenta al meglio l’estremizzazione e l’indurimento nel sound di quella specifica influenza. Da Vincent Fournier, nome all’anagrafe di Alice Cooper, riprende soprattutto il vestiario, di fortissimo impatto visivo, e le bizzarre scenografie dal vivo. Un contesto, la dimensione live, nel quale Duren si muove a suo piacere, integrando i macabri elementi scenici con le sue pose, le sue danze, piene di allusioni sessuali, basate su bislacchi passi di danza; con il suo trucco dark, spesso integrato dall’utilizzo di sangue finto e altre amenità di questo tipo, definibili, per il sentito comune, scabrose.
Del più famoso “Bacio di NYC” (coi quali la band andò anche in tour in Europa) invece i Wasp assimilavano la lezione prettamente musicale, un rock diretto, semplice, sempre strutturato in una “forma canzone” canonica in cui i chorus ne rappresentavano costantemente il climax e il fulcro.  Da questa base, debitrice anche dell’eredità dei New York Dolls, con i quali Steven peraltro suonò giovanissimo in qualche show nei primi anni settanta, Blackie e i suo fidi compari chitarristi Chris Holmes e Randy Piper innestavano sia quelle sonorità hard/heavy che avevano fatto la fortuna dei Motley Crue e dei Twisted Sister negli immediati anni precedenti, che una spruzzata di reminiscenze metal prese in prestito dalla NWOBHM. 

Se aggiungiamo al tutto le tematiche a sfondo politico, religioso e sessuale, il cocktail glamour è pronto. Un insieme ben miscelato che al contempo rappresentava il rimanere all’interno del solco tracciato, e quindi tradizionale, del Glam, ma anche spingerlo un po’ più in là, più avanti, marcando una tacca evolutiva importante.

La bontà della proposta musicale della Vespa, nonché la sua “pericolosità sociale”, era già emersa in modo evidente nell’omonimo debut album, rilasciato nel 1984, già pieno zeppo di brani cult, quali “I Wanna Be Somebody”, “B.A.D.”, “School daze” (un palese omaggio al Cooper di “School’s out”), e la splendida conclusiva “The torture never stops”. Ma, paradossalmente, il disco passerà alla storia più per una traccia che non verrà inserita nel disco (ma che veniva proposta ripetutamente dal vivo per la gioia dei fans), quella “Animal (Fuck Like A Beast)” che era già di per sé nel titolo un manifesto programmatico (e in generale le allusioni sessuali, usate come strumento di ribellione sociale, sarebbero state una costante nella discografia del newyorkese). La P.M.R.C. intervenne immediatamente nel bloccare la pubblicazione della canzone, provocando l’ira di Lawless&co.; ma non ci fu nulla da fare: la Capital Records fu categorica tanto che il pezzo potè essere inserito per la prima volta soltanto nella ristampa del 1998!

Ma il disco della conferma (per quanto stranamente meno venduto di “W.A.S.P.”) e di un’accresciuta consapevolezza e maturità arrivò l’anno successivo col presente “The Last Command”, dove il Nostro ci accoglie in copertina, con un ghigno luciferino e battagliero, la sua distintiva meche bianca che spicca dal nero della chioma. La sua famigerata tuta borchiata, equipaggiata con rotanti lame metalliche, è addobbata con numerose piume bianche, rosse e nere rendendolo somigliante ad un nativo americano. Sullo sfondo di un cielo rosso-fuoco, trionfante sulla cima di una collina colma di ossa umane (e non), il singer impugna una bandiera raffigurante una sorta di libera interpretazione del “Great Seal of U.S.A.”, il celebre sigillo con l’aquila americana che però, al posto delle zampe da volatile, ha delle braccia umane, e tra le mani stringe frecce da un lato e saette dall’altro (mentre nella versione originale ha sia le frecce che un ramoscello d’ulivo); e già di per sè questa è una bella provocazione. Ma non solo: sotto la testa dell’aquila è riportato il motto “Who dares wins!”, messaggio senza dubbio autobiografico, visto il successo che Blackie stava riscuotendo in quegli anni (e se pensiamo che da ragazzo era stato cresciuto in una rigida educazione cristiano-battista ed era molto attivo nelle attività parrocchiali…di strada e di cambiamenti ne aveva effettivamente fatti tanti!!).

L’incipit del disco è leggenda, soprattutto se lo si ascolta tramite il videoclip: su una strada deserta e assolata, in mezzo a un tipico deserto americano, giunge in lontananza, a bordo di un chopper di easyrideriana memoria, il nostro ”Wild Child”. L’arpeggio suadente ma al contempo energico che introduce il brano crea un’atmosfera di attesa carica di tensione, che presto però sfocia in uno dei più famosi mid tempo della decade. A quel punto Blackie, “ragazzo selvaggio” per antonomasia, si materializza su una rupe con il resto della band, con alle spalle la scritta a caratteri cubitali W.A.S.P. Il suo ghigno e i suoi ammiccamenti, accompagnati dall’ immancabile look dalla capigliatura super-abbondante e cotonata, fanno tutt’uno con la voce roca e potente, dal timbro unico e immediatamente riconoscibile. Come un miraggio, appare e scompare una vamp girl di rosso vestita, icona sexy tipicamente ottantiana; il nostro biker le da la caccia fino a notte fonda, per ritrovarsi infine in un accampamento di stampo preistorico, fatto di tende, di teschi impalati su delle lance e da fuochi appiccati come per magia dalla bellissima sconosciuta, riapparsa a mo’ di totem tanto sensuale e desiderabile quanto sfuggente.

Le coordinate musicali del resto del disco non si scosteranno molto da quelle definite in “Wild Child” per un risultato complessivo omogeneo e compatto.

Tra pezzi più veloci e dinamici, heavy fino al midollo, (come “Ballcruscher”, “Fistful of diamonds”, “Running wild in the streets” e la conclusiva “Sex drive”), e altri più cadenzati e oscuri come “Widomaker”, introdotta da un lento arpeggio con il vento che fischia in sottofondo prima che gli accordi vengano ripresi in distorsione e la batteria di Steve Riley ci accompagni all’inizio del cantato fino ad arrivare al consueto, catartico, ritornello, trovano spazio anche brani più singolari, come l’atipica ballata metallica “Cries in the night”, guidata da una melodia portante oscura, quasi dannata, con un chorus in cui parti acustiche ed elettriche si mischiano a formare un insieme suggestivo; o la notevolissima title track che nelle strofe trasuda un senso di epicità che poi deflagra nel magnifico; per arrivare alle celeberrime “Jake Action” dove il clima si fa più leggero anche se sempre coinvolgente (grazie a un riff di Randy Piper che ti si stampa subito in testa) con un refrain da brividi risultando alla fine uno dei brani migliori del lotto; e “Blind in Texas” forse il pezzo più conosciuto dell’album, spassoso racconto di una sbornia presa al confine col Messico, a El Paso, dal tono scanzonato e maggiormente blueseggiante con gli immancabili cori trascinanti e, in sottofondo, sguaiati rumori da saloon (a tal proposito non perdetevi l’esilarante videoclip, dove si potrà anche assistere ad una gara di velocità tra…armadilli!).

Insomma, un album decisivo per il Glam; non il punto più alto della carriera di Lawless, che raggiungerà il vertice artistico con il fenomenale "The Crimson Idol" (1992), ma che di certo fotografa, assieme ai coevi “Theatre of Pain” dei Motley Crue e “Invasion of your privacy” dei Ratt, lo “stato dell’arte” della Scena americana esattamente a metà decade.

Buon ascolto, buon agosto e, per gli altri cinque titoli della nostra Lista, ci risentiamo a settembre!